Otto giovinette, ai piedi del trono, ripetono una ermetica danza che non finisce mai.
(Aristide Sartorio, “Sibilla”, poema drammatico, 1922)
Nelle Marche i vecchi raccontano che le fate della Regina Sibilla in origine ballavano il saltarello all’interno
del loro antro, in cima alla montagna, calzando zoccoli di legno di fico ed impugnando legnetti. Le loro movenze
erano creatrici di suono, di musica primordiale che a sua volta rigenerava la danza in un continuum infinito: gli
zoccoli dei loro piedi battevano sonoramente e ritmicamente la terra, i legni delle loro mani fendevano l’aria
sibilando per poi fermarsi, incrociandosi, nella produzione di più acuti rintocchi. Sibili e rintocchi aerei come
il canto della Regina.
Il monte Sibilla, la cosiddetta “Montagna delle Fate”, è quindi il luogo in cui miticamente nacquero nello stesso
istante, da un impulso sovrannaturale, la danza e la musica della nostra Tradizione. Il tutto fu generato da entità
femminili, le fate, per mezzo di zoccoli di fico, pianta simbolo di fecondità e, se pensiamo al ficus ruminalis sotto
il quale vennero allattati dalla lupa Romolo e Remo, simbolo di divina maternità.
Alla fonte della Tradizione troviamo il principio femminile in assoluto, la forza femminile autofecondante e
autoreferenziale, in pace con se stessa ed in equilibrio perfetto col creato.
Come avvenne nella Genesi, ove dalla terra e dal cielo si separarono le acque, così nella Montagna delle Fate
un giorno si creò anche il terzo elemento, quello acqueo. Dalla pelle di una capra le fate costruirono il primo
cembalo (tamburello a sonagli), strumento musicale archetipico, simbolo del femminile, della Grande Madre, del
cerchio lunare, dell’acqua. Il tamburo a cornice è lo strumento sciamanico per eccellenza, lo strumento che permette
di compiere, a chi lo suona, viaggi in altri mondi, in altre dimensioni.
Fino a pochi decenni fa, nelle campagne marchigiane il tamburello veniva suonato ancora dalle donne di casa, spesso
dalla più anziana, dalla matriarca che, suonando, cantava e sanciva l’inizio del ballo.
Nell’esecuzione del saltarello, in epoca recente il cembalo, strumento femminile/acqueo, è stato affiancato
dall’organetto, strumento maschile che possiamo associare al fuoco. Il fuoco infatti è l’unico elemento che l’uomo
è in grado di produrre; parallelamente l’organetto è frutto dell’ingegno assoluto dell’uomo, è concepito senza
avere riferimenti diretti o indiretti in natura, quindi con un’azione creatrice all’ennesima potenza.
L’organetto nella metà del XIX secolo si sostituì agli altri strumenti “ignei” allora presenti nella musica
tradizionale marchigiana, primo fra tutti il violino, che la leggenda riconduce al demonio ed alle fiamme dell’inferno.
L’organetto entrò subito in simbiosi con la nostra terra; qui venne adottato ed allattato, crebbe vigoroso e forte
ancora una volta sotto l’ombra di un ficus ruminalis! Sì, quello di Waldum de fico … Castrum Ficardi … Castelfidardo!!
Nomen Omen, “il destino nel nome”, mai come in questo caso è appropriato dirlo: nel bosco (waldum) del fico si iniziò a
produrre sistematicamente lo strumento che sconvolse dapprima la nostra musica tradizionale, poi quella dell’intera
penisola che proprio negli stessi anni e anche grazie ad una battaglia combattuta negli stessi luoghi andava unificandosi
politicamente con la istituzione del Regno d’Italia.
Il risuonare del legno di fico creò la danza e la musica; sotto il segno del fico si coltivò lo strumento musicale per
eccellenza vocato alla danza poiché per produrre suono deve a sua volta muoversi, deve danzare!
Con l’organetto ben presto si portò a termine quello spostamento nella sfera degli uomini del mitico Ballo delle Fate.
Uomini nel senso di umani/mortali e maschi.
Originariamente il saltarello era ballato dalle fate, tra loro, gli uomini potevano al massimo guardare e
se avessero tentato di partecipare alla danza sarebbero stati “infatati” cioè sarebbero spariti volando, condotti
per sempre all’interno dell’antro.
Come ho scritto in un altro luogo, “è evidente come il saltarello, considerato in questa dimensione simbolica e mitica
presente ancora oggi nella memoria collettiva dei marchigiani appartenenti alla cultura tradizionale, non possa essere
ridotto a mera danza di corteggiamento.
Il saltarello è una danza sentita, a livello profondo, come rappresentazione e celebrazione dell’eros, della magia e
della potenza delle pulsioni erotiche, non come semplice mezzo per sedurre corteggiando, ovvero per ottenere direttamente
favori da colei o colui con cui si balla. La donna in questo senso è officiante, anzi sacerdotessa di questa liturgia
erotica celebrata appunto, a livello originario, solo da donne. La donna diviene così vera e propria incarnazione dell’eros.
Le fate, bellissime, dei racconti, mostrano la danza agli uomini e mostrandola la insegnano, come avviene sempre nella
cultura tradizionale. Ne mostrano ed insegnano non solo le movenze ma anche la sacralità del portato simbolico.
La dimensione spirituale di questo indottrinamento svanisce quando gli uomini provano ad alzare le gonne delle fate
e vedono gli zoccoli caprini. Nel momento in cui tentano di dare seguito ad un impulso erotico incontrollato, bestiale,
e non a coglierne l’aspetto sublime, divino, gli uomini proiettano la loro bestialità sulle fate che diventano così
personificazione del male e del maligno: personificazione di quel “male” che in realtà è nell’uomo stesso”.
Secondo i cabalisti le donne hanno già compiuto il loro cammino spirituale nel mondo fisico poiché hanno cancellato
il debito karmico che si era creato a causa del loro cedimento alla tentazione del Serpente nel Paradiso Terrestre.
Tale riparazione al danno avvenne nel momento in cui esse non parteciparono alla costruzione del Vitello d’Oro, mentre
Mosè era sul monte Sinai. In quel preciso istante le donne di tutti i tempi si riscattarono. Da quel momento il principio
femminile stesso è in attesa di ricongiungersi con il principio maschile, ancora schiavo del proprio ego, portatore di
tenebre, guerra, morte.
Le fate sono il simbolo di questa raggiunta dimensione ideale di Luce condivisa, di partecipazione alla Luce;
le donne che si prestano ad essere soltanto oggetto del desiderio maschile non fanno altro invece che alimentare
l’oscurità di cui ancora è portatore l’uomo.
E’ quest’ultima la dimensione in cui siamo oggi, percepibile in ogni ambito e più che mai in quelle attività che
potrebbero essere superficialmente ritenute Tradizionali: nel ballo del saltarello oggi la donna è oggetto funzionale
ad una pantomima di (basso) corteggiamento; nella musica popolare marchigiana la donna è ormai esclusa da ogni ruolo
attivo, anche dai quei ruoli che le erano peculiari (la pratica del tamburello e del canto); nei testi cantati sulla
musica del saltarello la donna è quasi esclusivamente bersaglio verso cui scagliare autentiche oscenità verbali.
Cosciente di tutto questo mi piace individuare nel Rinascimento e nel Manierismo un ideale punto di equilibrio,
ormai perduto, a cui rifarsi. Un equilibrio tra maschile e femminile, tra sole e luna, anzi un equilibrio costruito
attorno ai raggi del sole racchiusi nella luna.
Nei testi di Olimpo da Sassoferrato, poeta marchigiano, cantore e musico operante nella prima metà del XVI secolo,
la donna è al centro del mondo; è attorno a lei che il ballo e la musica prendono vita, sia essa “pastorella” o
“civile” (cittadina).
E’ con questa visione che io canto, suono e ballo il saltarello; è questa visione che cerco di condividere grazie
agli scritti ed alle conferenze; è su questa visione che cerco di formare i “nuovi” danzatori tradizionali, in
occasione dei laboratori di danza.
Colui che sa scoprire del sole e raggi
che il ventre della luna tiene ascosi
farà perfetti tutti i suoi viaggi.
(Frate Elia da Cortona)
(Questo intero scritto è stato pubblicato sul quotidiano Il Corriere Adriatico in data 2 dicembre 2012)