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L'organetto.

Il “piccolo organo”


Organetto. Voglio scrivere a proposito di questa parola, non riducendola però ad un qualche suo sinonimo che possa precisare meglio i tratti organologici di uno strumento specifico, di uno di quegli strumenti ai quali ci si è riferiti, nel corso del tempo, con il termine organetto appunto. Voglio scrivere di questa parola e del suo uso tradizionale nella mia terra, le Marche. In passato ho avuto la fortuna di lavorare all’interno di una fabbrica di fisarmoniche, l’Excelsior di Castelfidardo, spaziando dagli uffici alla produzione. In fabbrica, proprio aiutando alcuni operai già prossimi alla pensione, feci le esperienze più significative ed importanti per il mio successivo percorso professionale ed umano. Mi resi subito conto di quanto il lavoro degli operai del settore delle fisarmoniche fosse un lavoro tradizionale in senso stretto, ovvero trasmesso da maestro ad allievo. Di questa essenza tradizionale del loro lavoro gli operai erano pienamente coscienti, come raramente accade nelle fabbriche. Essi infatti erano orgogliosi di ricordare di continuo il proprio maestro e i propri anni di formazione e, nello stesso tempo, dietro ad una scorza dura e spesso poco paziente verso i giovani apprendisti, tutti cercavano disperatamente un allievo ideale a cui passare il proprio patrimonio di conoscenza. Ricordo che questi vecchi operai mi stupirono soprattutto per il modo che avevano di comunicare tra loro, per i termini che usavano per indicare gli attrezzi da lavoro e le stesse fisarmoniche che costruivano o le singole parti di esse. Spesso i vocaboli erano dialettali ma nel loro vocabolario quotidiano c’erano anche neologismi e c’erano vocaboli abitualmente usati nell’ambito dell’organologia ufficiale ma impiegati in modo originale. Per me che venivo dagli studi universitari in etnomusicologia ed organologia tutto questo era meraviglioso! Come sempre nelle discipline tradizionali che mi interessavano non cercai di raccogliere dati e scrivere articoli … cercai di imparare da questi maestri. Ovviamente per fare ciò bisognava essere consci di partire da zero; bisognava avere pazienza ed apprendere ascoltando, guardando e magari facendo qualche lavoro di fatica.

- Robè pòrtame l’orghenèitto che sta ‘ntel carrello lì de fora …
- Oh Sandrì, qui nun ce n’è manco uno …
- Ma come no! Lo vedo io da qui! Pòrtame quel 41 in quarta, tira via!!!


Con mia grande sorpresa capii che gli operai anziani delle fabbriche di Castelfidardo continuavano a chiamare qualsiasi modello di strumento a mantice da loro prodotto con il termine generico e antico di organetto!!! Fu questa una vera folgorazione per me. Nella mia mente si innescò un cortocircuito che ebbe degli effetti determinanti anche sulla mia futura carriera artistica! Gli operai delle fabbriche di Castelfidardo quindi chiamano organetto ogni sorta di strumento che producono, a prescindere dalla dimensione e dalle caratteristiche tecniche: possono chiamare organetto anche una grande e sofisticata fisarmonica cromatica da concerto a bassi sciolti. I suonatori e cantori tradizionali marchigiani dal canto loro chiamano organetto ogni strumento a mantice di piccole dimensioni con tastiera a bottoni, a prescindere dal suo essere bisonoro o unisonoro, diatonico o cromatico; la stessa cosa avviene anche a Bologna tant’è che l’organetto bolognese è spesso una fisarmonica cromatica, unisonora a bottoni, piccola e senza bassi. Ma organetto era chiamato anche l’organo portativo diffuso in Europa nel Medioevo e nel Rinascimento. Organo portativo presente in maniera significativa anche nelle Marche, luogo in cui si produssero importantissime opere iconografiche raffiguranti questo strumento nelle mani di angeli musicanti (vedi Gentile da Fabriano), di muse (vedi Giovanni Santi), di Santa Cecilia (vedi Raffaello), di allegorie della Musica (vedi Giusto di Gand) o anche presentandolo da solo, come “natura morta” di soggetto musicale (vedi le tarsie degli studioli di Federico da Montefeltro). Troppe suggestioni per non porsi questa domanda: c’è qualcosa che accomuna tutti questi strumenti, pur molto diversi tra loro? Se c’è un denominatore comune, di che tipo è? Quale aspetto riguarda? Quello organologico, quello della destinazione d’uso o magari … quello simbolico? Tutti gli organetti ai quali ho fatto riferimento sono aerofoni meccanici. Ciò significa che il suono è prodotto da un flusso d’aria generato da un mantice. Sono tutti strumenti a tastiera. Gli antichi organi portativi però sono a canne mentre gli organetti moderni sono ad ancia libera. Questa differenza importantissima dal punto di vista organologico diventa di poco conto se prendiamo in considerazione la destinazione d’uso. Sia gli organetti antichi a canne che quelli moderni ad ance sono facilmente trasportabili, sono “portativi” appunto e suonabili da un solo esecutore che, mentre utilizza la tastiera (o le tastiere), aziona contemporaneamente il mantice. Questo aspetto non è trascurabile, anzi. L’organetto, antico o moderno che sia, è uno strumento che può raggiungere ogni luogo in ogni momento portandovi musica, danza, festa, gioia! Per questo è divenuto protagonista della musica profana. Come scriveva il marchigiano Gaugello della Pergola nel 1462:

Udirai melodia del bel sonare
de vantaggiati pifari e trombecti,
arpe et leuti con dolce cantare.
Viole, dolcemele et organecti,
con citarae, salterio et cantarelle
tu poderai dançar se te ‘n dilecti.
Et vederai queste mie donne belle
dançar a bassadança et lioncello
a doi a doi con l’altre damigelle,
quai a la piva e quale a saltarello,
e chi a rostibolì et chi al gioyoso,
et chi a la gelosia novo modello.








Che bell’esempio marchigiano rinascimentale di quanto si può trovare ancora oggi, in ambito tradizionale, nelle Marche! Prendiamo da questo frammento poetico solo l’ultima espressione del primo verso di ogni terzina ed avremo: sonare / organecti / donne belle / saltarello!!! Tutto è cambiato, niente è cambiato nelle Marche per chi segue ed esegue la tradizione.

Se la musica sacra è praticata storicamente, in occasioni pubbliche, all’interno delle chiese con i maestosi organi liturgici, la musica profana può divampare ovunque, anche in luoghi non deputati ad accogliere abitualmente i suoi dionisiaci riti collettivi, con il pubblico che ascolta o, ancor meglio, con il pubblico che balla al suono di organetti (antichi o moderni) e di altri strumenti. Se pensiamo all’iconografia può sembrare paradossale allora che all’interno delle schiere di angeli musicanti sia presente il piccolo organo portativo, l’organetto antico, utilizzato in realtà principalmente nella musica profana, più che l’organo liturgico. Potremmo liquidare la questione giustificandola con motivazioni di tipo meramente estetico. O possiamo invece avventurarci in una interpretazione di tipo simbolico. In terra l’organo liturgico era ed è ancora oggi lo strumento prediletto dalla chiesa cattolica perché un solo esecutore, suonandolo, può eseguire musica architettonicamente complessa, polifonica, con un suono continuo, oppure può supportare, quando serve, il canto. Un solo uomo può gestire più linee melodiche scritte secondo i principi dell’armonia, di quell’armonia che nella musica terrena imiterebbe le proporzioni matematiche della musica delle sfere celesti, non udibile all’uomo. La musica liturgica deve essere pragmatica e sempre efficace immediatamente. Deve essere tenuta sempre sotto controllo da una mente musicale capace. E’ musica di un maestro che guida i fedeli, è musica di un iniziato all’arte della musica che ora accompagna ora stupisce un uditorio composto massimamente da non iniziati, i fedeli.

In cielo le cose vanno diversamente. L’armonia è costante, diffusa in ogni dove, eterna. Per questo la musica è sempre musica d’insieme: ognuno esegue la sua eterna melodia, col suo strumento, in perfetta relazione con gli altri, ognuno è maestro tra maestri, ognuno è parte del tutto armonico della Gerusalemme Celeste. Ogni angelo o beato suona in rapporto di giusta proporzione con gli altri. C’è solo un maestro sopra tutti che “tempera e discerne”, per dirla con Dante, questa armonia: è il Creatore. Ecco perché nelle rappresentazioni della musica del cielo troviamo l’organo portativo, strutturalmente più versato alla musica d’insieme, e non il grande organo, suonato da un singolo e spesso solitario maestro. In cielo si suona tutti assieme come se si fosse uno soltanto, anzi essendo uno soltanto nella luce, nell’eterno godimento di Dio. Solo in cielo si raggiunge quello stato di perfezione che in terra è perduto. Solo in cielo si può suonare quella utopica musica perfetta anche se plurale, equilibrata anche se libera, sublime anche se semplice e spontanea: in terra l’uomo ricerca da sempre nell’ambito profano della musica strumentale, più aperto alla sperimentazione, questa dimensione, senza ovviamente raggiungerla mai compiutamente. Quello che in terra rimane per forza dionisiaco in cielo diviene naturalmente apollineo. L’organetto, nelle sue diverse declinazioni antiche e moderne, stupendamente diviene sempre il simbolo di questa tensione ascensionale e dei suoi vari esiti.

L’organetto antico, ormai fuori dall’uso da secoli, diviene per noi oggi l’immagine di una musica oltremondana e sconosciuta. In passato non era così, nel Medioevo e nel Rinascimento l’organo portativo era produttore di “melodia del bel sonare” (citando ancora Gaugello della Pergola) che faceva sentire al cuore “tanto de dolcezza per una bionda trezza, che me ‘l recordarò sempre ch’io viva” (come scriveva nel Trecento l’inquieto Antonio da Ferrara). Era quindi strumento per musica profana, anzi direi meglio laica, viste le profonde implicazioni spirituali e metafisiche mai abbastanza considerate della musica per danza e della musica “d’amore”. Era strumento per musica sublime ma tangibile, raffinatissima ma terrena.

Nelle mani di eccelsi suonatori come Francesco Landini l’organetto produceva musica dagli effetti stupefacenti come descritto da Giovanni da Prato ne’ Il Paradiso degli Alberti, opera ambientata nel 1389: “cominciato il suono si vidono molti uccelli tacere; e quasi come attoniti facendosi più da presso per grande spazio udendo passaro; da poi ripreso il loro canto, raddoppiandolo, mostravano inestimabile vaghezza, e singolarmente alcuno rosignuolo, in tanto che a presso a uno braccio sopra il capo di Francesco e dell’organetto veniva”. L’organetto moderno è invece più che mai un simbolo dionisiaco della musica della tradizione popolare contemporanea. E’ lo strumento che possiamo trovare idealmente tra le mani dei suonatori delle “classi subalterne” (come si diceva una volta!) di tanti paesi del mondo, come raccontato nel romanzo I crimini della fisarmonica di E. Annie Proulx. Anche in questo caso ed in questo ruolo la forza evocativa dell’organetto è dirompente e non ha eguali. Anche se suonato in maniera empirica, a volte approssimativa, diviene lo strumento delle emozioni pure e degli istinti. E’ lo strumento adatto universalmente per produrre musica capace di modificare gli stati d’animo. Ed ecco che così la musica torna al suo ruolo fondamentale, ben noto agli umanisti del Rinascimento. E con la musica, ancora una volta si fa partire la danza! L’organetto moderno è lo strumento principe della danza perché è lo strumento che per produrre suono deve muoversi, deve danzare! Nelle Marche è lo strumento del saltarello. Ed ecco che ritorna l’associazione Marche/organetto/saltarello, oggi come ieri.

Organetto dunque. Una parola e tanti significati, tante suggestioni, attraverso il tempo. A me piace vivere queste suggestioni nel mio spazio, nella mia terra, le Marche. Per questo ho iniziato da qualche anno a suonare anche l’organetto antico, accanto a quello moderno, eseguendo brani massimamente marchigiani di varie epoche. Per ricercare anche artisticamente e non soltanto intellettualmente sottili legami con tempi e cose perdute. Per riunire nella mia musica di oggi quel che trovo sparso nei libri e nella memoria collettiva della mia gente … come ho trovato nella memoria dei miei maestri operai di Castelfidardo il termine organetto usato nel nostro modo tradizionale.